7 dicembre 2009
1
07
/12
/dicembre
/2009
20:39

Il piccolo passaggio a livello è vicino alla stazione di un paesino che conterà d’estate 50 abitanti. Così, le solerti FS hanno pensato bene di eliminare il dipendente preposto all’alzarsi e abbassarsi della sbarra, sostituendolo con un simpatico e moderno espediente: quando il treno si ferma alla stazione precedente, la sbarra viene giù.
Quindi, se vedete la sbarra abbassata o, peggio, venir giù lenta come Gesù sul Golgota avete due alternative: iniziare a smadonnare in quattro lingue e tre dialetti assortiti prendendo a testate lo specchietto retrovisore oppure tirare fuori dalla borsa un libro. Perché la solerte sbarra non si rialzerà che tra 10 minuti abbondanti.
Ah, dimenticavo un dettaglio: il treno non passa MAI alla stessa ora quindi non pensate di poterlo evitare rimettendo l’orologio.
Tra le sette e mezza e le otto e dieci passerà di lì, ma il quando lo deciderà solo e soltanto lui.
Così io mi sono arresa al suo strapotere e se incappo nel suo monopolio tiro fuori il libro e faccio spallucce, quasi grata di quell’oasi di calma obbligata. Mi guardo intorno, ormai conosco i dettagli del paesaggio.
Il bambino che abita davanti al passaggio aspetta l’autobus che lo porterà a scuola con l’immancabile gatto in cerca di
coccole appoggiato agli stinchi. Infagottato nel piumino arancione o saltellante nel grembiule, ha la placidità rassicurante del trantran mentre allunga le mani verso il gatto dalla testa
paciosa.
La casetta al di là del passaggio a livello sembra stare lì da sempre. Su due piani, col muro di pietra a vista, gli
infissi di una volta. La casa è tutta sviluppata al primo piano, i secondo è poco più di un ballatoio. Sulla cima del tetto un comignolo sbuffa già il fumo della stufa tra la nebbia delle otto di
mattina. Una carriola e qualche attrezzo sono abbandonati lì, in un angolo tra la strada ed il muro. Dalla finestrella di quello che presumo sia la cucina esce una tremula luce di casa. Un calore
antico, rassicurante. E mi è impossibile non ricordare le lunghe giornate d’inverno a casa dei miei nonni. La stufa che crepita pigra, i ciocchi che cadono come alberi nelle
foreste. Il cane sul cuscino, mio nonno che esce con gli stivali in campagna, la bruma invernale che non vuole alzarsi, l’aria piena dell’odore del latte caldo appiccicato al pianale caldo
della stufa. Mia nonna col grembiule e le braccia a manico d’anfora che mi chiede cosa ci faccio lì, perché non sono già a scuola a fare il mio dovere.
Un mondo antico, un giorno dopo l’altro.
Un luogo e un tempo solo della memoria.
Una luce che scalda nel suo anacronismo contadino.
Che non esiste più.
Potremmo vivere così?
Il tintinnio della campanella annuncia il ritorno alla vita vera, scanso lo sguardo dalla finestrella e torno al mio mondo frenetico. Fatto di cellulari che squillano, procedure, numeri, computer, pratiche, numeri, numeri e ancora numeri.
La sbarra riparte, il mondo mette la prima e sì va.
Ma dove si và?